Un tempo, nel beneventano, non era Natale se in tavola mancava ‘messer’ capitone. Il suo nome deriva dal latino ‘caput’, ‘testa’, ed è la femmina dell’anguilla (dal latino ‘anguis’, ‘piccolo serpente’). Secondo fonti storiche attendibili, il Capitone sarebbe arrivato sulle tavole del sud d’Italia grazie all’imperatore Federico II di Svevia, il quale era ghiotto di questo pesce iper-proteico, che proliferava nel Lago di Lesina (Foggia). Federoco II di Svevia, detto ‘stupor mundi’ inserì questo pesce nel menù del pranzo offerto in occasione del Colloquium generale – l’assemblea plenaria dei funzionari regi – convocata l’8 aprile 1240, per promulgare la nuova ‘Constitutiones’.
Ser quanto riguarda l’origine del consumo del capitone alla Vigilia di Natale, questa trova luogo sia nella tradizione giudaico-cristiana che nei culti pagani e in alcune leggende popolari. Per la sua forma, incarna il serpente primordiale. Per il Cristianesimo è il serpente tentatore, il demonio che sedusse Eva nell’Eden e che tentò, dopo secoli, anche un’altra donna, la Vergine Maria.
Questa sarebbe la ragione per cui il capitone deve essere ammazzato e cucinato dalle donne, in memoria della disubbidienza di Eva. La sera del 24 Dicembre, notte della nascita di Gesù, nelle nostrane cucine va in scena quello che ha i contorni di un vero e proprio rito sacrificale, l’uccisione del capitone tramite il taglio della testa. Un rituale alquanto macabro volto a sancire il trionfo del bene sul male, allontanando i malefici e la malasorte. Dunque, cibarsi del capitone porta bene, è un atto propiziatorio.
Secondo la tradizione, il capitone deve essere acquistato vivo dal pescivendolo il giorno prima della Vigilia di Natale e tenuto in vita, in acqua fredda, fino alla sua uccisione.
A Benevento si usa consumarlo ‘alla scapece’. Una maniera, questa, piuttosto originale di cucinare il capitone, dettata dalla necessità. Un tempo, infatti, in assenza di frigoriferi, era questo un modo per conservare le cibarie, sia le carni che il pesce e gli ortaggi, più a lungo. Il primo a parlare di ‘scapece’ sarà Apicio, nel suo ‘De re coquinaria’, descrivendo una preparazione a base di verdure, ortaggi e pesce azzurro fritti e poi annegati in aceto e miele.
Secondo il Dizionario Etimologico di Pascual Corominas, la parola ‘escabeche’, proverrebbe dall’arabo ‘sikbâg’, che si riferisce ad un piatto che appare già ne ‘Le mille e una notte’.
La pronuncia volgare di ‘sikbâg’ suonava come ‘iskebech’, da cui ‘escabeche’ in spagnolo. La forma castigliana ‘escabeche’ apparve scritta per la prima volta nel 1525, nel ‘Libro de los Guisados’ di Ruperto de Nola. Una preparazione, questa ‘alla scapece’ che si sarebbe diffusa, ben presto, dalla Spagna a tutto il bacino mediterraneo. Artefici di questa diffusione sarebbero stati, perlopiù, mercanti e marinai.
1 kg di capitone
3 dl di aceto
3 spicchi d’aglio
origano
qualche foglia di menta
farina
sale
pepe
olio d’oliva
Lavate e pulite il capitone dopo averlo sventrato. Quindi, dividetelo a pezzetti, asciugateli bene e infarinateli. Friggete i pezzi infarinati in abbondante olio bollente. In un recipiente mettete la menta, poco origano, aglio tritato, pepe e sale e sistemateci i pezzi di capitone fritti.
A parte, fate scaldare l’aceto e fatelo evaporare fino ad ottenerne 2 dl, aggiungete 2 cucchiai dell’olio di frittura e conditeci il pesce, lasciandolo marinare per almeno 24 ore.